Acqua, pietra e vertigini…
di Giuseppe Antonini
Non solo questo, ma ben altro ancora sanno offrire le forre, mondi primordiali nascosti nei luoghi più remoti dell’Appennino. Qui il genio della natura ha creato forme essenziali, perfette, utilizzando lo scalpello dell’acqua e del ghiaccio per meravigliare l’uomo di ogni tempo con la promessa di visioni stupefacenti. E così è: lame di luce che penetrano la penombra di una forra colpiscono l’acqua nebulizzata della cascata accendendo magicamente i sette colori dell’arcobaleno confinato in fondo a precipiti pareti. Visioni che durano attimi, situazioni talvolta irripetibili, istanti che contano per il resto della vita, pagando ampiamente quella che si è già vissuta. Ciò accade soprattutto in primavera quando l’Appennino si sveglia dall’inverno: acqua e ghiaccio abbondano ovunque e l’energia di una forra è pura ed incontenibile. E’ questo il momento atteso da chi desidera “sentire” la forza della natura colta nel suo aspetto migliore; così si affrontano discese avventurose, spesso vissute in silenzio, fatte di difficili ed interminabili momenti. Ed è soprattutto in questi casi che ci si accorge del pericolo, non già ricercato come obiettivo, ma piuttosto accettato come inesorabile presenza. Poi con il tempo si impara che esso stesso è ingrediente fondamentale dell’avventura poiché quando è calcolato valorizza l’esperienza ed insegna ad essere umili ed intelligenti… oppure a morire stupidamente. La natura ha regole precise ed è poco tollerante in questo senso. Ma qualche volta per errore o per caso ci si trova a dover risolvere le situazioni più difficili, dove sbagliare può costare la vita: è spiacevole dirlo, eppure è così. Ma è proprio in quel momento che si comprende il valore di essa, che si afferra pienamente il senso di ciò che si sta facendo.
Allora se anche, il destino dovesse essere infausto morire non fa più così paura, non vi è rimpianto, ma la certezza di aver vissuto intensamente fino all’ultimo istante.
Questo pensiero matura giorno dopo giorno, un’esperienza dopo l’altra, e si afferma all’epilogo di ogni discesa importante, quando appena sfuggiti alle violente cascate primaverili ci si siede sull’erba alla luce morente del tramonto, appena in tempo per accendere un fuoco sui prati di maggio fuori dalla gola: le mani gelide, la stanchezza ed i lividi sul corpo, sono i segni ancora presenti della forra dura ma splendida. Ma il rumore cupo dell’acqua di sottofondo non sembra più così ostile ed ora mormora solo suggerire dolci pensieri che nascono dall’anima. Solo allora lo sguardo rapito dalla fiamma tremolante si distoglie per un attimo dal fuoco, salendo istintivamente al firmamento in questa notte buia e senza luna, illuminata solo da stelle e lucciole che brillano nelle tenebre confondendo terra e cielo, dissolvendo ancora una volta l’evanescente barriera tra sogno e realtà.
Figlie dell’Acqua e del Tempo (Introduzione)